S. Maria degli Angeli e dei Martiri
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La Decorazione
  (1500 - 1600) di Simonetta Anellini

In accordo con l’interpretazione di Michelangelo, che prevedeva una sobria decorazione della chiesa, volendo sfruttare principalmente la bellezza delle strutture romane superstiti, messe in risalto dalla pura forma delle linee architettoniche di collegamento, non fu previsto nessun tipo di allestimento decorativo dell’impianto, inteso nella sua accezione più comune, se non quello di fornire la chiesa dell’arredamento indispensabile alle funzioni liturgiche, come anche allo svolgimento della vita religiosa quotidiana dei pochi ecclesiastici che vi si trovavano (v. Storia di una fabbrica a risparmio).

Sarà solo nell’ultimo quarto di secolo del 1500, quando i lavori riprenderanno sotto il pontificato di Gregorio XIII, che si inizierà l’allestimento di alcune cappelle, senza peraltro tener più conto delle intenzioni del fondatore della chiesa Antonio Lo Duca, che aveva previsto la costruzione di sette cappelline da dedicare ai sette angeli.

Secondo un epigrafe datata 10.3.1574 la prima e la più antica è la cappella del Salvatore, situata sulla sinistra del presbiterio, la cui commissione si assegna normalmente alla famiglia romana De Cinque che risulta proprietaria della cappella nel XVIII sec., come attestato da una lastra sepolcrale nel pavimento.

Ai lati dell’altare, però, figura lo stemma della famiglia Catalani, a cui apparteneva il sacerdote Matteo, fedele discepolo di Antonio Lo Duca e storiografo della Basilica, al quale altre fonti attribuiscono la committenza precedentemente alla data sopra indicata.

Sulla parete destra della cappella, in basso, un’altra epigrafe sempre del 1574 ne accerta l’origine e insieme il privilegio, concesso da Gregorio XIII, che riconferma una clausola della Confraternita dei Sette Angeli, secondo cui ogni confratello aveva diritto alla messa gregoriana di suffragio dell’anima “Gregorius PPXIII, ad perpetuam rei memoriam, Salvatoris nostri Jesu Christi…”.

La Cappella è attualmente difesa da una cancellata in ferro settecentesca, dovuta all’ornamentazione vanvitelliana.

La mensa è addossata alla parete di fondo e la pala d’altare, di Domenico da Modena, raffigurante “Il Verbo adorato dai sette angeli principi” viene racchiuso da due pilastri formati da tante piccole tele (in totale nella cappella erano 24, ma attualmente ne mancano due) dove vengono raffigurate le “Storie di Cristo”. La volta a botte è chiusa nel fondo da un arco a fascia, decorato con stucchi che inquadrano i dipinti raffiguranti la “Cacciata di Adamo ed Eva”, “l’Eterno” e la “Cacciata degli Angeli ribelli”, di cui, con l’ausilio del restauro, si è potuta accertare l’attribuzione, coincidente con l’affermazione del Titi che vi trovava pitture di Arrigo Fiammingo (Hendrick van der Broeck) (1530?-1592/1605). E’ stato, inoltre, sempre attraverso il restauro, che le opere si sono rivelate di grande qualità ed interesse per lo studio del percorso stilistico dell’artista, che qui mostra anche l’assimilazione di esperienze fiorentine ed una capacità tecnica particolare, avendo dipinto il tondo con “l’Eterno” ad olio su cuoio argentato e sbalzato. Il dipinto fu, infine, incollato alla volta. Nell’organizzazione di questa cappella si trova un’ulteriore testimonianza, del fatto che, negli ultimi decenni del 1500, gli apparati decorativi venivano allestiti secondo un progetto determinato.

Si deve ancora confermare quanto apprendiamo dal Titi a riguardo di Giulio Mazzoni (1525?-1618?) che dipinse la tela della “Visione dell’Inferno” situato sulla parete destra, e la tela con “Pio IV e un gruppo di devoti” (figura 70), che vengono riconosciuti come personaggi legati alla fondazione ed alla storia della Chiesa, quali il Card. Serbelloni, lo stesso Lo Duca (tra il Papa ed il Cardinale); l’imperatore Carlo V, primo iscritto alla Confraternita dei Sette Angeli; Antonio e Domenico Massimo di Roma, amici e devoti del Lo Duca e nel gruppo delle Dame benefattrici tre duchesse coronate: la duchessa di Parma Margherita d’Austria, la duchessa d’Urbino Vittoria Farnese della Rovere, la duchessa di Castro, suocera e madre delle altre due, Girolama Orsini Farnese.

La seconda cappella allestita nella chiesa è quella situata nella grande nicchia destra dell’attuale vestibolo, che però nel 1575, data della sua costruzione, era attigua all’ultimo ingresso laterale realizzato da Michelangelo.

Essa è chiusa da una bassa balaustra marmorea; presenta l’altare sopraelevato da tre gradini dal piano del vestibolo, un paliotto molto semplice ma impreziosito dalla composta cromia dei materiali: un fondo di marmo bianco, pannelli di rosso di Levante, riquadrature d’Africano e cornice di giallo di Siena.

L’iscrizione posta al centro del pavimento nel sotterraneo della cappella ricorda che essa fu fatta erigere dal ricco banchiere Girolamo Ceuli e fu dedicata al Crocefisso, raffigurato, insieme al committente ed a S.Girolamo, nel grande dipinto sopra l’altare, opera attribuita a Giacomo Rocca (?-1592/1605) un allievo di Daniele da Volterra.

Allo stesso artista si deve probabilmente la decorazione della volta a botte, ove, fra rilievi di stucco dorato, sono raffigurate otto cariatidi che formano due finte nicchie centinate, entro cui sono affrescati quattro dottori della chiesa. Nei riquadri rettangolari sono raffigurati degli angeli con i simboli della Passione. Nella parte centrale della volta due cornici ovali racchiudono le pitture che rappresentano la “Cena degli Apostoli” e la “Lavanda dei piedi”. Al centro, in un riquadro rettangolare, un angelo in volo porta la croce, simbolo di fede. La composizione, per le accese tonalità e le grandi macchie di colore che spiccano sui fondi bianchi, risulta gradevole ed equilibrata. L’impostazione michelangiolesca delle figure, soprattutto delle due Sibille, in due nicchie centinate dipinte, inserite fra due cariatidi sostenenti un timpano triangolare, tradiscono la volontà dell’artista di riferirsi alla struttura della cappella Sistina, fin quasi a copiarla.

Ad un esame approfondito però i singoli personaggi presentano una gestualità fortemente accentuata e dimostrano di essere stati trattati con grossolana espressività, evidenziando la mediocre qualità delle opere. Bisogna dunque considerare, confrontando i dipinti della volta con la compostezza del partito decorativo e della tela d’altare, l’informazione riportata dal Nibby, per cui, sia gli affreschi che il monumento sepolcrale del Ceuli (da egli stesso disegnato ed è ovvio situato in questa cappella), caddero nel 1838.

Le figure attuali si debbono. Con molta probabilità, ad un ripristino del XIX sec., periodo in cui, spesso, il restauro veniva realizzato come copia ed interpretazione delle opere precedenti.

La terza cappella, in ordine cronologico, è quella situata nella grande nicchia a sinistra del vestibolo. L’iscrizione, datata 1579, posta in basso sulla parte laterale porta il nome di Consalvo Alberi (o Alvaro) che, ricevuta dai Certosini questa cappella in rovina, ne curò la ricostruzione dedicandola a S.Maria Maddalena. Inoltre fornì la cappella stessa di vasi, vesti ed arredi sacri e nel mezzo costruì un monumento sotterraneo per sé, per i suoi familiari e per i loro posteri.

La cappella, anteriormente chiusa da una bassa balaustra, presenta al centro, davanti all’altare, la fonte battesimale; due colonne di marmo giallo e capitelli corinzi che reggono la trabeazione, con timpano triangolare, dell’altare.

La tela con la raffigurazione del “Noli me tangere” viene generalmente attribuita nelle antiche guide ad Arrigo Fiammingo, ma l’equilibrio generale dell’opera e la delicatezza della pittura, lontana da accenti coloristici, inducevano a considerazioni stilistiche diverse, tanto che durante il restauro degli anni ’60, con un’approfondita ricerca storica, si poteva stabilire la paternità dell’opera, che risulta essere di Cesare Nebbia (1536-1618), artista che fu allievo ed aiuto del Muziano, del quale si evidenzia l’insegnamento, in particolare modo, nell’organizzazione spaziale del quadro.

Seguendo ancora l’ordine cronologico, consideriamo la cappella successiva, ricavata nello spessore delle mura diocleziane, sulla sinistra, prima di entrare nel grande transetto. Essa è protetta da una bassa balaustra marmorea su cui si imposta la cancellata a sbarre lisce ed attorte alterne, che presentano alla sommità punte di lancia variamente arricciate. Sulla parte destra, in basso, è l’epigrafe relativa al sepolcro di Pietro Alfonso Avignonese, che fece costruire a sue spese nel 1585 il sacello in onore di S.Pietro, confidando che i fedeli possano più facilmente impetrare, con le loro preghiere, misericordia e perdono dei peccati presso Dio. La lapide sulla parte sinistra ricorda l’indulgenza plenaria che Gregorio XIII, sempre nel 1585, concesse a tutti coloro che nel giorno di S.Pietro, si fossero confessati ed avessero pregato qui e a S.Pietro in Vincoli.

La mensa ha un paliotto di scagliola con arabeschi fogliacei e fiorati, mentre il resto dell’altare è in legno dipinto ed inquadra una famosa e bella tela di Girolamo Muziano (15528-1592), raffigurante “La consegna delle chiavi”. Tutta la decorazione che circonda la pala arcata è in stucco con due angeli in alto che reggono festoni e scritta dedicatoria. sulle pareti laterali si trovano due dipinti firmati da M.Carloni rappresentanti “Pietro e Paolo” e la “liberazione di S.Pietro dal carcere”.

La volta a botte della piccola cappella delimitata da una sobria cornice a disegno geometrico, presenta nella parete centrale, in una cornice circolare di stucco dorato, il dipinto che rappresenta l’Eterno Padre benedicente, mentre lateralmente, inseriti nei riquadri mistilinei, si trovano ornamenti stilizzati nei girali fogliati e nelle rosette di stucco dorato.

La piccola cappella risulta forse troppo angusta e buia, e la sobrietà delle sue decorazioni non risalta con la poca luce presente. Inoltre i due quadri laterali, molto scuri e contrastati, “stringono” forse esageratamente il dipinto del Muziano, a cui, ci sembra, debba essere attribuito anche il tondo della volta.

L’artista nativo dell’area lombarda, ma educato all’arte nel Veneto (Padova e Venezia) giunge a Roma appena diciassettenne, dove subito si mette in evidenza per la particolare attitudine alla realizzazione di pitture e disegni di paesaggi,tanto da guadagnarsi il nome di “il giovane de’ paesi”. Il giovane però, appassionato dell’arte e con una profonda volontà d’apprendimento, dopo anni di studi e tentativi ha voluto cimentarsi con la rappresentazione di figure. Attualmente la critica non ritiene che egli abbia raggiunto gli eccellenti risultati che otteneva invece nei paesaggi, perché in quest’ultimi veniva confortato da una sua attitudine naturale. In questo, come negli altri suoi dipinti, la stonatura dovrebbe essere costituita, essenzialmente, dall’atteggiamento austero e un po' rigido dei suoi personaggi. L'impressione negativa, però, viene sempre riscattata dal fascino delle espressioni mistiche dei volti, dalla composizione a larghe masse cromatiche, dalle pennellate corpose e dai toni vivaci.

Questo dipinto del Muziano molto si avvicina, nell'impostazione e nella realizzazione alla formella ad olio su rame della "Guarigione degli infermi" nella calotta della cappella Ruissi di S. Caterina de' Funari; così come il tondo dell'Eterno Padre presenta gli stessi attributi e la stessa raffigurazione di un'altra formella nella chiesa da ultimo citata. In effetti il Muziano realizzò moltissime opere durante il pontificato di Gregorio XIII, particolarmente in Vaticano, ed in altre chiese quali S. Caterina e S.M. sopra Minerva.

La cappella di fronte a questa, di giuspatronato Aldobrandini, è dedicata a San Brunone, adornata con un quadro del XVII sec., risulta oggi avere un mero valore architettonico, dato che successivamente fu dedicata al Santo fondatore dei Certosini l'altra grande cappella, nella parte finale del transetto. Sulla destra del presbiterio una grande cancellata setttecentesca chiude quasi completamente l'arco d'ingresso alla cappella su cui è lo stemma della famiglia Litta. La struttura della cancellata si presenta a correnti di ferro uniti da borchie d'ottone e palme dorate che formano due croci. L'iscrizione tombale nel pavimento, a destra dell'altare, datata 1608, illustra la personalità di A. Utta, patrizio milanese, avvocato concistoriale e "Patrono delle cause del Re cattolico", il quale dedicò la cappella non solo alla Vergine ma anche a S. Giacinto. Sull'altare si ergono due colonne di marmo africano con capitelli corinzi che inquadrano la pala di G. Baglione 0571-1644), raffigurante la "Madonna con bambino e i Santi Raimondo e Giacinto". Sul lato destro si trova il dipinto con i "Santi Valeriano e Cecilia" e sul sinistro "S. Francesco che riceve le stimmate".

La volta è suddivisa in geometrie mistilinee, evidenziate da stucchi dorati, ove sono inseriti degli affreschi. Al centro un tondo con "L'Eterno Padre fra Angeli", con atteggiamento di dominio e di comando, ai lati due riquadri rettangolari con la raffigurazione di due angeli alati, a mezza figura, graziosi e riccioluti, entrambi con una corona nella mano sinistra.

Tutte le pitture di questa cappella evidenziano il momento particolare del percorso stilistico dell'artista, che per la complessa personalità culturale di erudito, trova maniere riferentesi allo stile di fine secolo o dell'inizio del nuovo, per giungere solo nella maturità ad una "maniera propria" già riconosciutagli dal Mancini, quale somma delle esperienze precedenti. Con ciò si vuole sottolineare che in questi quadri il Baglione a caratteristiche manieriste quali il contrapposto, la ricchezza ed i toni vivaci dei panneggi, aggiunge quella tendenza per il caravaggesco che qui si evidenzia soltanto nell'effetto del contrasto di luci.

L'ultima porzione, decorata verso la fine del XVII sec., fu il catino absidale, ove, sopra le finestre vediamo l'affresco che raffigura delle virtù e degli angeli monocromi con fondi e decorazioni auree fin nei sottarchi e negli sguinci delle finestre. Al centro in campo giallo irradiato di luce, appaiono degli angeli sopra una coltre di nubi, al di sopra la Vergine in un drappeggio azzurro, con degli altri angeli che ne festeggiano l'Assunzione. Evidenti nel dipinto l'efficacia cromatica e la plasticità compositiva in cui Daniele Seyter (1649-1075) mostra gli influssi veneti dovuti agli insegnamenti del Lotti durante il suo lungo soggiorno a Venezia, e la guida del Maratti con cui lavorò a Roma. Come nelle altre opere, abbandonate le reminiscenze delle - sue origini tedesche, egli sottolinea una particolare sicurezza nel disegno, ed una intensa plasticità nei volumi in movimento dei suoi personaggi. Sul finire del secolo la chiesa si presentava quindi ancora molto semplice nella sua organizzazione architettonica, per incontrare la ricchezza delle decorazioni soltanto negli spazi appartati delle cappelle, l'unica opera in vista era l'ultima descritta, cioè l'Assunzione del Seyter, direttamente collegata all'intitolazione della chiesa stessa.

Lo stato attuale della chiesa si deve, come già detto, alla trasformazione settecentesca del Vanvitelli ed all'inserimento dei dipinti che avevano adornato gli altari di S. Pietro, dove erano stati sostituiti da mosaici. Inoltre, va sottolineato il fatto che gli artisti che nel periodo tra la metà del XVI sec. e per tutto il XVII sec. lavorarono in Vaticano sono gli stessi che lavorarono nella chiesa in questione, attribuendole una importanza determinante per Roma.

Il dipinto situato nel transetto, all'angolo destro del presbiterio, rappresenta, secondo alcune fonti, la "Predica di S. Girolamo" di G. Muziano, mentre secondo altre si tratta di "S. Girolamo visitato da devoti romiti". Questa opera, predisposta per la cappella Gregoriana in S. Pietro, non fu terminata per la morte dell'artista e sembra che sia stata completata da P. Brill il quale, comunque, non si discostò affatto dal concepimento originario dell'opera tanto che un disegno conservato agli Uffizi mostra che anche per il paesaggio non vi furono varianti nella composizione. Il dipinto mantiene le caratteristiche usuali al Muziano, accentuando, nella rappresentazione dei Santi, quel sentimentalismo religioso che tanta fortuna avrà nel secolo successivo e che gli valse infinite lodi dai contemporanei e persino dai critici che non erano ben disposti nei suoi confronti, come il Mancini che invece lo loderà per questa sua capacità "... i volti dove per esprimere quella santità era singolare.. .».

Entrando nel presbiterio, sulla destra, subito dopo la cappella di S. Giacinto, al di là della balaustra si trova la "Presentazione di Maria al Tempio" di Giovan Francesco Romanelli (1610?-1662) il Viterbese, allievo del Domenichino e di Pietro da Cortona. L'opera preparata per l'altare della presentazione in S. Pietro, andava a sostituire un dipinto ad olio su muro del Passignano, che si era deteriorato. Nonostante le molteplici esperienze che lasciano mostra di sé in molti palazzi (Barberini, Altemps, Lante) e chiese romane (S. Pietro, S. Lorenzo in Damaso) a fianco di più note personalitàcome il Cortona e il Bernini, l'artista non dimostra in questa rappresentazione la scioltezza compositiva che gli è propria, concentrando l'attenzione del fruitore sulle figure centrali, appesantite dalla rigidità del panneggio e dalla pienezza della quinta architettonica. Si avvicina molto, invece, alla sua produzione, non ancora influenzata dalla esperienza parigina, la figura in basso a sinistra, aggraziata e in movimento ed il brano paesaggistico che dona luce e respiro.

Procedendo nel coro, sempre sulla destra, incontriamo una delle opere più famose di Domenico Zampieri, il Domenichino (1581-1641) il "Martirio di S. Sebastiano". L'opera eseguita ad olio su muro per l'altare del Santo in Vaticano, fu sottoposta nei primi anni del settecento da Nicola Zabaglia alla delicata e traumatica operazione di distacco dal muro e di trasferimento su tela. L'intervento fortunatamente non ha creato grandi danni al dipinto, che ne ha risentito soltanto nel particolare della figura del cavaliere a destra, riuscendo comunque a mantenere quella vivacità tonale propria dei pigmenti ad olio. La composizione, complessa nell'insieme, si imposta su tre piani svolti in verticale, polarizzando l'attenzione negli incarnati luminosi e nel contrapposto dei personaggi. La drammaticità della scena viene quasi annullata dalla delicatezza delle tinte tenui e dalla espressione serena del Santo che confida nella sua fede. Data la formazione e la collaborazione dell'artista con A. Carracci e le già vissute esperienze caravaggesche (S. Luigi de' Francesi) ci sembra opportuno riallacciarci al suggerimento di E. Borea che del dipinto dice: "... nell'esperienza di un tentativo barocco che si risolve in neo manierismo».

Ci troviamo, quindi, al centro dell'abside, dove nell'edicola marmorea della porta laterale sinistra è il busto in marmo bianco di Papa Pio IV, fondatore della chiesa. Egli viene raffigurato in cappa, barbuto e calvo, con lo sguardo fiero ed il capo rivolto leggermente a destra. L'opera viene normalmente attribuita ad un seguace di Michelangelo della fine del XVI sec. Nonostante molti scrittori riportino che il disegno sia del grande artista, non esistono comunque documenti che ne confermino l'autenticità.

Ancora a sinistra è collocata la grande tela del "Battesimo di Cristo" di C. Maratti (1625-1731), la cui fortuna critica si è alternata spesso nel corso dei secoli, a causa della mancanza di apprezzamenti positivi.

Il percorso stilistico dell'artista di origine marchigiana, allievo e collaboratore di A. Sacchi dalla tenera età di 11 anni, riesce a conquistare una piena autonomia soltanto verso il 1650 con la "Natività" di S. Giuseppe dei Falegnami. La sua copiosa produzione, invero, indica la stima tributatagli dai contemporanei e l'ammirazione di cui godeva, tanto da essere chiamato a dipingere per la cappella del Battistero di S. Pietro. Forse fu proprio a causa dell'età avanzata (l'esecuzione sarebbe del 1697) e dell'importanza dell'incarico avuto, che egli abbandona la descrizione di particolari tanto consona al periodo barocco, per rifugiarsi in una composizione centrale che sottolinea con enfasi la figura del Cristo e la monumentalità dell'opera.

Molto curati invece il gruppo di destra e quello degli angeli, in cui la resa pittorica evidenzia la ricerca della rappresentazione della bellezza di gusto classicheggiante.

Vicino alla balaustra, sempre sulla sinistra del coro, troviamo un altro grande dipinto del XVII sec. eseguito da Cristofano Roncalli 0552-1626) detto il Pomarancio.

L'artista lavorò molto per il Vaticano ed a lui fu commissionato questo quadro da Papa Clemente VIII per uno degli altari di S. Pietro, che egli terminò nel 1604. Il grande dipinto è realizzato su lastre di lavagna, di cui si vedono i bordi, se si guarda con luce radente. Dato che il loro allineamento non fu eseguito alla perfezione ed ebbe bisogno di ampie stuccature, a loro volta ridipinte, le alterazioni cromatiche provocate dalla diversità dei materiali, indussero ad un intervento di restauro negli anni '60, tramite il quale si riuscì a restituire all'opera l'originale vivacità cromatica tipica del pittore manierista. Il quadro rappresenta una delle vicende relative alla vita di S. Pietro e precisamente la "Morte di Anania e Safira", la quale cade come fulminata, in primo piano, per il rimprovero dell'Apostolo. Molto efficace risulta lo scorcio di questa figura e la composizione nell'insieme. Il Roncalli, d'altronde, è conosciuto per l'ottima qualità del disegno e della tecnica di esecuzione, caratteristiche usuali alla generazione dei suoi maestri e della produzione della seconda metà del 500. Ancora di sapore manieristico risultano la vivacità dei toni nelle estese masse cromatiche dei panneggi e l'atteggiamento retorico e monumentale dei personaggi.

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