La ricerca tecnologica di Quagliata accompagna tutto il suo percorso creativo
e ne segna i diversi periodi e i diversi generi, con vistosi riflessi anche nella
sigla di stile: che poco o nulla trattiene, anche agli inizi, della prima educazione
italiana. Fin dal primo impatto l’opera di Quagliata comunica invece la
sua appartenenza al mondo americano (dopo la Pop), per il tratto disegnativo franco
e aperto, la lucentezza del colore, la tendenza ai grandi formati, la schiettezza
senza veli dell’ispirazione.
Fu dopo aver conseguito nel "San Francisco Art Institute il Bachelor of
Fine Arts" e successivamente il "Master of Fine Arts" in pittura,
che l’artista si ritirò per quattro anni in uno studio da lui stesso
costruito sulle montagne della costa californiana, concentrandosi sul problema
della resa della luce sulla tela dipinta; finché non decise di imprigionarla
fisicamente, la luce, nel materiale più adatto a ottenere questo risultato:
il vetro. Le tecnologie di lavorazione del vetro erano già allora, negli
Stati Uniti e altrove, in rapida evoluzione, tale da suggerirgli di sfruttarle
e incrementarne la sperimentazione per nuovi traguardi nel campo dell’arte.
Le sue opere tra il 1975 e gli inizi degli anni Novanta sono, tutte, pannelli
di vetro soffiato, piombato. La figura domina l’ispirazione dell’artista.
"Suicidio in vetro" si intitolava, nel ’75, una composizione
dal fondo di un acceso rosso scuro, mosso da violente macchie di luce, contro
cui la sagoma agitata e nera di un autoritratto (come se l’artista avesse
disegnato la propria ombra) sembra impegnata a schivare o a ripararsi dai colpi
che la bersagliano, lasciando tracce di linee spiritate e corolle di punti bianchi.
Vengono in mente gli “spari” di Marcel Duchamp sul Grande vetro,
che Quagliata avrà certo veduto nel museo di Filadelfia: ricevendone,
chissà, proprio il suggerimento di una pittura fatta con il vetro?
Il mentalismo di Duchamp resta però agli antipodi della vitalità
espressiva di Quagliata (anche se non della sua intensità meditativa)
e può avergli comunicato, semmai, qualche spunto episodico, come forse
ancora nel titolo dell’altro autoritratto dello stesso anno,"la mia
ombra androgina": di nuovo la sagoma in nero dell’artista, dall’abbondante
e frastagliata chioma quasi femminile, sagoma attraversata nel mezzo da un’asola
che lascia trasparire il fondo del cielo azzurro con nuvole. Difficile dire
se un simbolo, ancora, di femminilità, o di volatilità e di compenetrazione
con l’elemento spirituale dell’aria.
"Sukuki Roshi" si intitola, nel 1980, il ritratto di questo maestro
zen giapponese, morto nel 1973, che dice Quagliata “per otto anni della
mia vita mi guidò nell’arte della meditazione”. Vien fatto
di pensare al tempo trascorso in isolamento dall’artista, concentrato
sul tema della luce; tema che forse con l’intima convinzione (fin da allora,
ben in anticipo sul mistico lucernario di S. Maria degli Angeli) delle sue valenze
anche sacre, lo condusse all’arte del vetro. Infatti, la sua figura (in
singolare anticipo sul Jasper Johns delle Stagioni), è di nuovo una
sagoma nera, e traforata proprio da punti di luce come un firmamento notturno.
Punti luminosi della cui simbologia ci informa Kenneth R. Trapp: “Queste
luci sono il simbolo della spiritualità di Suzuki Roshi”. "William
Rush", un altro ritratto, eseguito nel 1983. Le piombature assumono il
robusto valore di un segno che costruisce con straordinaria forza plastica di
chiaroscuri e trascoloramenti questo fascinoso volto di vecchio, dagli occhi
d’azzurro penetrante e magnetico: un roccioso coagulo di luce che volge,
come sciogliendosi, all’imbrunire, al silenzio del tramonto. Un volto
del Padre. In "Melancholia" del 1982, Quagliata aveva invece voluto
esprimere il senso desolante di un’umanità senza spessore: un avvocato
di Los Angeles ritratto all’interno del suo aereo privato; i contorni
di piombo scorrono sulla superficie lasciando intorno un senso di vuoto.
"Lo sguardo" è il titolo di un altro vetro del 1983 che “zumma”
un volto di donna, tagliato sulla fronte e sul mento, “Scelsi questo punto
di vista ingrandito – scrive Quagliata – come mezzo per entrare
nella psiche di questo soggetto. Quando uno è così vicino c’è
quasi la sensazione di precipitare sempre più profondamente dentro di
lui”. I contorni degli occhi, della bocca, del naso si mescolano a quelli
delle ombre, creando l’effetto liquido e agitato di un braccio di mare
che può inghiottire. Ancora ritratti di una forte presa psicologica:
"Un uomo" del 1983–84, "Virginia Lewis" del 1985,
"Mr. Saxe e Mrs. Saxe" del 1990. “Stavo eseguendo ritratti su
commissione per persone molto benestanti e sentivo il bisogno di un riequilibrio”.
Scelse allora, nel 1987, di occuparsi di un barbone di nome David che dormiva
a cielo aperto e si nutriva dai cassoni dell’immondizia, in un’opera
intitolata "Damned Misery!": vetro soffiato, piombato e dipinto, ferro
vecchio e filo metallico in un pannello di metallo. L’occhio spaventato
dell’uomo traguarda tra il filo spinato; i suoi capelli si confondono
con residuati e sporcizie. Dietro di lui s’apre un grande nulla, attraversato
da uno svolìo di stracci appesi. Il drammatico tema è orchestrato
superbamente, nel contrasto dei neri e dei bianchi, dei pieni e dei vuoti.
La serie dei "Tesori del Mediterraneo" (1987–1994) è
composta di immagini di statue classiche sommerse dal mare. Alghe, pesci, polipi,
coralli, vegetazioni sottomarine le incrociano, le avvolgono e le incrostano
in una smaltata fantasia di colori. Il mare comunica le proprie tonalità
e trasparenze al modellato dei marmi, la lastra di vetro acquista la rifulgente
fluidità di uno specchio d’acqua penetrato da un raggio di sole.
Storia e natura, bellezza d’arte e meraviglie dei fondali entrano in simbiosi,
nel momento più carico della ricerca espressiva di Quagliata. Quando,
nel 1993, egli mette a punto la nuova tecnica del vetro fuso, che gli consente
una maggiore scioltezza e libertà di esecuzione, anche lo stile ha una
svolta. Al tempo stesso l’artista, avendo scelto di vivere in Messico,
vi mette radici prendendo moglie.
“"Testa in fiamme"– ha scritto – fu una risposta
al Messico. Quando mi sposai con Margarita ed entrai nella vita familiare messicana,
trovai una cultura che non reprimeva il contenuto emotivo del vivere. Il mio
lavoro ne fu profondamente influenzato. Riscoprii il coraggio di affrontare
direttamente le emozioni e di utilizzarle, senza paura, come carburante per
il mio lavoro”.
"Testa in fiamme", “pittura di luce” in vetro fuso, è
del 1995. I connotati scompaiono tra le lingue di fuoco, che l’artista
si compiace di tracciare con la libertà della nuova tecnica. In "La
passeggiata nella luce", "La passeggiata nel mare", "Torso
n. 1" e "Torso n. 2", "Winther Buddha" e in altre opere
degli stessi anni 1994–95, alle figure o ai volti si sovrappone sempre
un libero flusso di linee e colori; esprime uno stato d’animo acceso o
sognante, di estasi della luce. Nel bellissimo "Sconosciuto nel mare"
torna, con una pennellata liquefatta, il motivo dell’acqua che trasporta
fili d’alghe, scie d’azzurro, bolle luminose, lasciando affiorare
sotto di sé, del volto irradiato, solo la sagoma tenuemente splendente.
"La porta della notte", l’ultima grande opera che conosco,
di dieci metri per quattro, è il trionfo del tema marino, dove la fluidità
del vetro fuso è identificata con la dilagante massa liquida e con le
sue magie di bianchi che sono spume o screziature di luce, di neri che sono
ombre o scogli, di azzurri che trapassano nel blu, in una danza cosmogonica
di anelito orfico. La griglia metallica che raccorda i centootto pannelli disegna,
a contrasto dello smisurato, la misura di un modulo, quasi un richiamo alla
finita ragione dell’uomo, la cui sagoma in vetro trasparente si staglia
contro la griglia.
“"La porta della notte" – scrive l’artista –
rappresenta l’essere umano in un mondo incomprensibile. È la mia
sensazione di ciò che si prova a confronto con l’immensità
dello spazio”. “Questo lavoro – aggiunge – rappresenta
l’apice di un intero decennio di sforzi. Il mio intento è di mostrare
che il vetro, considerato dalla maggior parte delle persone come decorativo,
è realmente un potente mezzo per l’espressione di idee e concetti
che trattano della psiche e degli interrogativi esistenziali tipici dell’arte”.
Un capitolo a parte è costituito dagli interventi di Quagliata nell’architettura.
“Quando lavoro direttamente con clienti privati – leggiamo tra le
sue dichiarazioni – mi sento spinto a ravvivare i loro ambienti in modo
molto personale. Quando collaboro con architetti in spazi pubblici o commerciali,
cerco una integrazione con lo spazio architettonico dell’edificio nel
suo insieme”. Ne sono esempio le molte ed eccellenti vetrate eseguite
dall’artista in residenze e uffici di Malibu, San Francisco, Los Angeles,
Washington, Vail, New York, Città del Messico, Milano, Reno, Veracruz,
Oakland: quasi tutte di sigla astratta, che alterna con felice invenzione schemi
geometrici a composizioni più libere. Conoscere il tragitto creativo
di Quagliata prova due cose, in relazione al compito che gli è stato
affidato nella basilica romana: primo, che l’uso del vetro in questo suo
lavoro, indispensabile alle finalità pratiche, non è solo strumentale
ma connaturato anche alle esigenze espressive dell’artista; secondo, che
l’ispirazione spirituale e la pregnanza simbolica dell’opera, non
sono neanch’esse d’occasione ma nascono dall’intimo nucleo
poetico della sua visione.
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