S. Maria degli Angeli e dei Martiri
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Alle porte di Igor Magno (Marco Di Cpua)
 
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“Non sono più di questo mondo, io sono lontano da me stesso, non più legato alla mia persona. Io sono vicino alle cose essenziali”. (Costantin Brancusi, Aforismi ).

Nei giorni precedenti la sua morte il vecchio Costantin Brancusi, costretto a letto, smise improvvisamente di parlare francese. Dopo più di mezzo secolo ricominciò a esprimersi soltanto in rumeno, sua madrelingua. Perdendosi, si ritrovava. Morale: ovunque tu stia andando, amico, per quante strade tu abbia percorso e perso, una, alla fine, la ritrovi, ed è quella dell'inizio. Tanto vale saperlo subito. Tanto vale attrezzarsi per tempo. Questo forse può voler dire non allontanarsi troppo dalle basi, dalle radici, e se anche lo fai tienile sempre d'occhio. Soprattutto se sei un tipo che ama girare, o se la vita, o la storia addirittura, ti hanno gettato qua e là.

Porte. Igor Mitoraj (è uno dei più grandi scultori contemporanei. Lo dico? Lo dico) di porte ne ha aperte e chiuse un sacco. Intanto ci viene raccontato che da piccolo abitava “alle porte” di Cracovia, attraversate le quali se ne è andato a Parigi, in Messico, a New York, in Grecia e poi, dal 1983, in Italia, a Pietrasanta. Suppongo che lui sappia benissimo cosa voglia dire essere in transito , eppure se c'è un artista che ogni volta ti mette davanti a un che di immemoriale e di fondamentale, a una certa idea originaria, contemplata da lontano, di ciò che possono ancora voler dire Grecia e Occidente (qualsiasi cosa espressioni così vogliano ancora significare in epoche di trash permanente e obbligatorio) se esiste chi ti porta con disinvoltura, come se non avessimo mai smesso di farlo, ai piedi di un tempio, di un dio bendato o di un enigma sintonizzandoti con il grandioso e il misterioso, se dunque esiste uno per il quale muoversi non è equivalso ad altro che a sondare varie profondità, a provare che l'antichità è qui, adesso, ovunque, e che la classicità ci feconda ogni volta, sempre, di nuovo, perché siamo noi che la creiamo, ebbene se c'è una specie di genio così, perdurante e sostanzialmente immobile, unicamente posseduto, fino ad esserne completamente prigioniero, dalla sua struggente volontà di stile, questo è Mitoraj. Non finiremo mai di ammirare il suo enorme talento, così fuori scala rispetto alla modestia ciò che tanti altri chiamano “la mia ricerca”, né di contemplare le poeticissime figure della sua smisurata, colossale nostalgia, la purezza della sua insondabile malinconia, la fine di un'angoscia, sancita, ai suoi e dunque ai nostri occhi, da corpi gloriosamente e vanamente eroici, o la riscoperta del sorriso come quintessenza di un'illuminazione, di un qualche risveglio, di un'indifferenza pacificata, di una serena vittoria sulla caducità, benché non ci sia una sola opera di questo scultore che non abbia affrontato, sul campo, mutilazioni e lacerazioni, che non abbia sopraffatto in combattimento lo spirito della distruzione, le forze dell'annientamento. Anzi, diresti che le immagini di Igor stanno tra noi e il nulla, ricevendo, da entrambi gli universi, forme e virtù: teste, mani, un torace, uno sguardo che non ha più paura, dagli esseri umani; un respiro, una spazialità piena di energia, dal vuoto. A proposito: Brancusi, il più grande scultore del ‘900 che giustamente Igor ammira, lo ha detto perfettamente: “Ho provato l'impressione del vuoto assoluto, un nero nel quale non c'era nessuno. E del pieno assoluto, una luce inaudita. Era un dono preziosissimo, un'esperienza che mi ha illuminato”. Meglio di così…

Alcune volte ho avuto la sensazione che il mondo di Mitoraj, ad alto tasso di epicità e di inattualità, sia un prodotto diretto della sua mente, che non abbia bisogno d'altro che di questa corrente d'immaginazione indipendente e incorrotta, di attingere proprio da ciò che sembra accendersi e svanire e riaccendersi senza fine… Quasi che le sue opere siano piene e impetuose come onde sempre sul punto di frangersi ma che, non incontrando ostacoli, non si frangono mai.

Se in un'età in cui grottescamente si gioisce nel rimpicciolire e nel vanificare le cose e i valori e i nomi puoi ancora dare un senso a una parola in agonia come bellezza (il cui semplice suono, per esempio, suscita il crimine del monaco incendiario nel Padiglione d'oro di Yuko Mishima e le speranze redentrici di Dostojeskij) un po' retorica, se ci pensi, eppure così inevitabile perché magari, come tutte le cose importanti, non la sai definire e forse manco te la ricordi com'è fatta ma se la incontri, se ti ci imbatti, voglio dire, la riconosci subito e parli proprio così, la bellezza , ed è esattamente in quell'attimo che capisci come gli artisti non dovrebbero fare altro che rivelarla, se insomma ancora hai un'idea di ciò che questa espressione indica è anche perché ti vengono in mente le opere di Mitoraj. Dunque un migliaio di grazie. Però: adesso che sei davanti alla Basilica di Santa Maria degli Angeli usa solo quella chiave e queste due porte meravigliose non si apriranno. Come mai?

Perché c'è dell'altro. E io non so come comunicarlo se non parlando di devozione. Accidenti, voglio dire che la bellezza senza devozione è solo vanità. La devozione è lo spirito che abita il corpo della bellezza. E' il soffio che la legittima. D'altronde è un posto mica qualsiasi quello della soglia. Stare sulla porta, stare all'ingresso di qualcosa vuol dire stare in mezzo a due mondi, aspirare a… stare per… Ti smaterializzi in un luogo e ti rimaterializzi in un altro. La porta è un valico: vai da qui a lì. Solo che sei già inghiottito, al riparo, e se si tratta di una chiesa, a voler essere esatti, sei nel grembo – così una volta mi disse un monaco del Monte Athos – e puoi anche non far nulla, non agire e nemmeno pensare, mi spiego?, perché comunque sei plasmato, proprio come il feto nel grembo della madre. Se poi è chiusa, una porta, non vai proprio da nessuna parte. Ma funziona lo stesso. E' un richiamo e uno stop. E' una promessa, il trailer del film bellissimo che là dentro ti aspetta. Passala anche soltanto un paio di volte e una porta di chiesa ti diventerà familiare come quella di casa tua, estendendo la tua percezione dell'esistenza, dandoti la prova di appartenere a un genere, a una moltitudine… “Soglia (declama la nona elegia duinese di Rainer Maria Rilke): oh, pensa che è, per due che si amano/ logorare un po' la propria soglia di casa già alquanto consunta,/ anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo… leggermente”.

Dunque caro Igor: prima della “sistemata” data da MIchelangelo e dunque prima dell'intervento di Vanvitelli, insomma molto ma molto tempo prima che apparisse questa immensa croce greca, così solenne e vasta, qui c'erano terme e piscine: c'era molta acqua, echi e rimbombi di voci ombrose tra le colonne gigantesche e sopra i marmi… Te ne sei ricordato? Mi sembra di sì. Le porte che hai ideato, incassate nel cotto della facciata, sono superfici luminose, pozze specchianti, cambieranno di ora in ora, alterando i profili e le forme: riceveranno luce, come i templi attici, dal sole del mattino e, com'è Piazza della Repubblica oggi, dall'illuminazione notturna. Ma l'acqua me la fa venire in mente questa specie di risacca che porta alla riva della chiesa e fa affiorare pezzi e frammenti di scene e relitti di figure, come a causa di una salvazione… Mi viene in mente adesso, e ne sono certo: queste porte non sembreranno mai chiuse.

Neanche le avesse pensate Alessandro Magno in persona qui, sulle porte di Igor, la Grecia va ancora in cerca dell'Oriente, ed è musica per le nostre orecchie: offre la pienezza della figura, i suoi volumi, le sue lucenti rotazioni e li stempera e li alimenta in un ardimentoso nulla. Forme perfette incontrano la metamorfosi, si sottomettono allo spirito della trasformazione. Scene madri del racconto evangelico si presentano come riverbero e flusso. Mitoraj ha scelto l'inizio e la conclusione, la fine di tutto. Le parti più misteriose del Vangelo, a dire il vero.

Ecco l' Annunciazione , quel momento in cui Maria non sa ancora se si tratti di un sogno fantastico o della realtà. E il Cristo risorto , qui sereno come un dio greco, perché il risultato è questo: per sempre la morte ha calpestato . Le porte sono come due mani che, congiunte, trattengono e proteggono e spiegano tutto. In mezzo: c'è la storia e il dolore, c'è la vicenda di Gesù, le sue peripezie, la predicazione e la passione, e ci sono tutti quelli che pensano che non fu altri che un uomo. Tuttavia a chi passa, d'ora in poi, questa chiesa ricorderà che il Cristianesimo vive di eventi, di accadimenti fatali…

Porte: sono quadri tridimensionali. Implicano anche un certo rapporto fisico. Se ci pensi, una porta è forse l'unica opera d'arte che ti sia concesso toccare. Non fosse altro che la devi spingere per aprirla, ed entrare.


 

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