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Fu Pio IV, Giovan Angelo dè Medici (1559-1565) che accolse il travagliato desiderio
del sacerdote, non essendo questi riuscito a convincere i quattro papi cui si
era rivolto e che avevano preceduto Pio IV, a costruire una chiesa entro le
Terme di Diocleziano.
Della costruzione fu incaricato il grande Michelangelo, ormai 86enne, che ne
stese il progetto ed ebbe la felice intuizione di lasciare intatte le strutture
romane dell’aula rettangolare delle Terme ( per alcuni archeologi si sarebbe
trattato dell’antico Tepidarium, per altri del Frigidarium). Per creare l’abside
il disegno prevedeva di utilizzare la “natatio” (o piscina scoperta ad acqua
fredda).
Alla morte del grande architetto, avvenuta il 18 febbraio 1564, i lavori non
erano ancora terminati ma furono continuati dal suo allevo, Jacopo Del Duca,
nipote del propugnatore del culto degli angeli, il quale trovò il modo di dare
il suo parere sulla forma della chiesa da inserire entro il Tepidarium (o Frigidarium
che dir si voglia) delle Terme. Naturalmente Antonio Lo Duca fu guidato da un
principio simbolico e mistico, ma comunque il desiderio di dedicare sette cappelle
agli angeli da un lato e sette cappelle ai martiri dal lato opposto, poneva
con chiarezza il principio della chiesa a navata unica con cappelle laterali
ed affermava la necessità di estendere oltre i limiti del tepidarium vero e
proprio l’insediamento della chiesa.
Progetto che non venne mai realizzato, così come era stato pensato.
Il punto di partenza fu sì l’idea iniziale del prete siciliano, ma limitata
allo scopo di ridurre la spesa altrimenti ingentissima e di rispettare al massimo
la particolarità dell’ambiente romano.
Michelangelo previde di includere nella nuova chiesa il tepidarium, compresi
i vani angolari delle vasche (le attuali due cappelle dopo l’aula rotonda e
le altre due prima del presbiterio) oltre i due ambienti attigui sui lati corti
(aula rotonda e parte della natatio poi trasformata in coro rettangolare con
una volta a botte).
Lasciò intatte le otto enormi colonne di granito e aprì due porte all’estremità
dell’aula, assegnando, come accesso principale, quello che dava su Termini (attuale
cappella Albergati chiusa poi dall’Orlandi) in modo che chi entrasse avesse
la splendida visione d’infilata, dell’aula rettangolare lunga oltre 90 metri.
Nel corso del 1700 intervenne sulla chiesa l’architetto Clemente Orlandi che
alterò profondamente il progetto michelangiolesco chiudendo le due entrate del
transetto, lasciando solo quella su piazza Esedra e murando tre degli arconi
all’intersezione dei bracci e riducendo, di conseguenza, gli enormi finestroni
romani che davano luce alla chiesa. E ciò per aderire al desiderio dei pontefici
Benedetto XIII Pier Francesco Orsini (1724-1730) e Clemente XII Lorenzo Corsini
(1730-1740), che vollero trasferire in S. Maria degli Angeli, a partire dall’anno
1727, le dodici grandi pale d’altare della vecchia basilica vaticana man mano
che esse venivano tradotte in mosaico per essere sistemate nella nuova.
All’Orlandi successe Luigi Vanvitelli che cercò di rimediare agli insensati
interventi del collega riuscendovi solo in parte e apportando anche lui altre
modifiche più o meno criticabili, rispetto al disegno di Michelangelo.
Spariti ormai i vestiboli laterali trasformati in cappelle, chiusi tre dei quattro
archi dei vani delle vasche, il Vanvitelli riordinò l’aula rotonda con l’aggiunta
del cassettonato dipinto e di un lanternino sopra la cupola, aumentò la navata
longitudinale di otto colonne in muratura che dovevano fare riscontro a quelle
di granito del transetto e completò la trabeazione della chiesa ripetendo le
sagome dei tratti di quella romana aggettanti sulle colonne stesse. Ideò la
nuova facciata su Piazza Esedra, unica entrata rimasta per accedere alla chiesa.
Nel 1703 Francesco Bianchini, prelato con gli ordini minori ed erudito di cultura
eclettica, tracciava intanto sul pavimento della chiesa, allora in cotto, la
nota Meridiana con i segni zodiacali, ispirandosi ai lavori del grande astronomo
Gian Domenico Grassini.
Di scarso rilievo sono i lavori compiuti nella chiesa dopo il restauro del Vanvitelli.
Intorno al 1772 fu sostituito all’antico altare in legno nel presbiterio, quello
attuale in marmo, che forse risale ad un disegno vanvitelliano.
Altri lavori furono compiuti nel 1847 montando un nuovo organo dietro l’altar
maggiore nel presbiterio. Nel 1855 fu installato un nuovo ciborio sempre sullo
stesso altare. Nel 1864, su disegno di Francesco Fontana, fu eretto l’altare
della cappella di S. Brunone in sostituzione di quello settecentesco in legno.
Nel 1896 furono eliminati i gradini previsti dal Vanvitelli all’entrata dell’Esedra
per raggiungere il piano michelangiolesco dell’interno.
Infine nel 1911 fu demolita la facciata vanvitelliana su Piazza Esedra e ciò
per rimettere in vista la nicchia del calidarium, con mattoncini romani recuperati,
che rivelano comunque un rifacimento moderno che non ha giovato alle vicine
Terme e danneggiato la visibilità della chiesa scambiata dal passante distratto
per un semplice rudere.
Nel contempo fu demolito il lanternino vanvitelliano dell’aula rotonda, sostituito
da altri non adatti che lasciavano filtrare l’acqua durante le piogge, finché
nel 2001 fu installato quello, modernissimo, in vetro istoriato, ideato dall’artista
italo-americano Narcissus Quagliata, allievo di De Chirico. L’opera d’arte è
una grande struttura a vetrata di cinque metri di diametro, posta ad un’altezza
di 23 e funge anche da meridiana, per cui i visitatori possono seguire il movimento
della terra attorno al sole, riflesso sul pavimento dell’aula rotonda.
Nel 1998, infine, viene regalato dal Comune di Roma, un nuovo monumentale Organo,
realizzato dall’organaro Bartolomeo Formentelli, artigiano di Verona, che installato
nella cappella di S. Brunone, rompe la linearità architettonica della gemella
cappella Albergati che le sta di fronte. Infatti, per installare questo possente
e maestoso strumento, si è dovuto togliere dalla parete sinistra, il cartone
gemello del pittore Francesco Trevisani e sistemarlo nell’oscura cappella di
S. Teresa del Bambin Gesù, liberata dalle sovrastrutture barocche che hanno
riportato a nudo gli imponenti muri romani e dove è allestita una interessantissima
mostra permanente sulla storia delle Terme di Diocleziano e della loro trasformazione
michelangiolesca in chiesa, il tutto corredato da grafici, disegni e belle fotografie
didascaliche in bianco e nero.
Si è inoltre dovuto spostare sulla parete destra una delle copie delle statue
in gesso i cui originali si trovano all’esterno del portico d’entrata al Cimitero
del Verano.
Le alterazioni non impediscono tuttavia di apprezzare della concezione michelangiolesca
la complessa e ricca articolazione spaziale, la singolarità della planimetria,
l’apertura verso gli insediamenti urbani attraverso i due vestiboli. Grandioso
restava l’effetto delle immense arcate, intenso il giuoco della ombre e delle
luci, pienamente in rilievo la plasticità dei pilastri e delle colonne libere
sormontate dal frammento di trabeazione, lievi e quasi aeree le volte a crociera
come vele gonfiate dal vento.
I valori architettonici essenziali, fondati sulle masse murarie e sui vuoti
non erano turbati da un rivestimento cromatico o da sistemi di ornamentazioni.
Essi realizzavano in sé la loro unità e la loro nota di colore, delle colonne
di granito rosso e dei bianchi capitelli di marmo, risaltava sul fondo intonacato,
con tocchi di una ricchezza adeguata alla severa solennità dell’insieme. |