La Veranda degli Angeli
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La Veranda degli Angeli 

(Maurizio Calvesi)

Intorno all’insigne e antico corpo della romana Santa Maria degli Angeli sono stati realizzati lavori tra i più avvincenti del recente Giubileo; il restauro in corso riporta in luce le strutture romane, mentre i titolari della basilica, che sono il cardinale William Keeler (arcivescovo di Baltimora e primate della Chiesa negli U.S.A.) e Monsignor Renzo Giuliano, hanno commissionato a un artista italo–americano la conclusione del vestibolo con un lucernario in vetro. La copertura romana della rotonda d’ingresso presentava al centro, come quella del Pantheon, un oculo aperto. 

Quando, nel XVI secolo, l’edificio termale fu trasformato in chiesa, sull’oculo fu installata una lanterna, forse ma non sicuramente, progettata da Michelangelo, che era stato incaricato di curare la trasformazione: vediamo questa lanterna nella pianta di Roma incisa dal Duperac nel 1577, il Buonarroti era morto tredici anni prima.

Luigi Vanvitelli, alla metà del Settecento, riprendendo i lavori nella basilica, sostituì quella lanterna con un’altra, che fu però a sua volta soppressa agli inizi di questo secolo, nell’intento di ripristinare la struttura antica. Da allora l’oculo fu chiuso con vari tipi di lucernario, senza trovare una soluzione davvero degna. 

L’iniziativa ora presa conclude quindi una vicenda secolare, introducendo nell’eccezionale complesso un segno della creatività moderna, che è al tempo stesso rappresentativo per la forte personalità dell’artista scelto, e rispettoso, trattandosi pur sempre di una struttura in vetro che assicura la necessaria copertura senza precludere l’afflusso della luce, quale previsto dall’originaria architettura romana. Interventi moderni nell’antico non saranno certo da generalizzare, anzi è bene che continuino ad essere evitati; ma è questo un caso del tutto particolare, e la scelta di un artista che, tra i viventi, è anche tecnicamente il numero uno nel mondo per il trattamento delle vetrate appare indubbiamente felice.

Il suo nome è Narcissus Quagliata; nato a Roma da genitori siciliani, studiò con de Chirico prima di trasferirsi, a diciannove anni, a San Francisco. A un cognome siciliano si lega così il coronamento dei lavori di Santa Maria degli Angeli, come a un cognome siciliano – Lo Duca – furono legati i loro inizi. Fu infatti un sacerdote nativo dell’isola, Antonio Lo Duca, a suggerire nel 1541 di installare una chiesa in quella porzione delle gigantesche terme di Diocleziano, e di dedicarla ai sette angeli che, secondo la leggenda, confortarono i martiri cristiani chiamati prima del supplizio alla dura fatica di costruire l’antico edificio, per il diletto dei romani. La basilica fu così battezzata Santa Maria degli Angeli e dei Martiri.

Lo Duca affermò di aver avuto una visione della Vergine e degli angeli sugli antichi ruderi e durante il giubileo del 1550 trovò credito presso il pontefice Giulio III che, con una sua bolla, destinò a tempio le terme e consentì al sacerdote di aprire un ingresso all’estremità nord–ovest dell’aula e di impiantare degli altari provvisori. Pio IV riprese il progetto e, secondo il racconto del Catalani, “mandò per Michelangelo Bonarota, et havendoli esposta la volontà sua di fare della più intiera parte delle Terme chiesa, gli ordinò che andasse a vederla e considerasse il sito, e giudicasse la spesa che ci andrebbe per ristorarla”.

Ci fu una discussione sull’orientamento della chiesa: Lo Duca, “Haveria voluto, che la chiesa si fusse fatta per longo […]; a Michelangilo li parve disegnarla in Croce”. Il progetto di Michelangelo prevalse, l’opera ebbe inizio il 5 agosto del 1561 ed era quasi completata alla morte del Buonarroti. Egli ridusse al minimo l’intervento, per rispetto dell’antica architettura: “si limitò a delimitare lo spazio con alcune pareti divisorie e a ricavare un profondo presbiterio. 

Contraddicendo Lo Duca che avrebbe voluto conservare l’impostazione della navata sull’asse longitudinale, designò come principale l’asse minore, dal vestibolo rotondo all’altare. Fu tutto” (Argan). Infatti la spesa risultò assai contenuta: 17.492 scudi, solo il doppio di quanto pagato per la costruzione di Porta Pia.

La chiesa sembrò però troppo nuda e in seguito il Vanvitelli intervenne pesantemente, ricostruendo il coro disegnato da Michelangelo e introducendo un fastoso “ornato”.

Il lucernario progettato da Quagliata è a forma di piccola cupola, in vetro colorato; non si salda all’oculo romano, lasciando invece aperto un interstizio, una cesura di rispetto: poggia su quattro globi di acciaio rivestiti d’oro zecchino, che nascondono le staffe di ancoraggio. Il disegno è molto semplice, simmetrico a quello del pavimento sottostante di cui riflette la composizione: una serie di anelli concentrici attraversati da linee che convergono verso l’apice e dividono la cupola in otto spicchi, ciascuno dei quali ha in comune con l’altro, alla base, uno dei quattro globi. Il centro, che è il punto di maggiore luminosità, è occupato da una triplice sfera di cristallo quasi incolore (tre sfere l’una dentro l’altra); dalla sfera si partono sette raggi destinati a spargere all’interno dell’ambiente riflessi di luce. Tre lenti collocate in modo da captare la posizione del sole nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni, ne proiettano l’immagine al centro della rotonda, ogni volta con un colore diverso, scelto dall’artista. Un apposito studio del Dipartimento di Astronomia dell’Università di Città del Messico ha fornito i dati necessari, per realizzare questo strumento astronomico, mentre a fabbricare le speciali lenti è stato il laboratorio di Ottica della stessa Università.

Le simbologie sono immediate e vanno a integrare quella classica della cupola come immagine del Cielo: le tre sfere concentriche alludono alla Trinità, fonte della luce che scende sul mondo, i sette raggi agli arcangeli e ai sette martiri che proiettano i colori dell’arcobaleno che alludono alla divina composizione della luce.

La colorazione dei vetri sfuma dai toni più scuri del bordò, di un grigio azzurro, alle successive gradazioni che attraverso il viola, il lilla, il rosa accompagnano l’andamento ascensionale della cupoletta fino al punto centrale di più pura e appena ambrata luminosità.

L’artista ha avuto l’accortezza di intonarsi, nella scelta dei colori, ai marmi e ai vetri della navata centrale, al fine di rendere armonioso l’inserimento di questa sorta di “veranda”, da cui gli angeli possono guardar dentro alla loro basilica.

L’idea di decorare una cupola con forme e colori sfumati e via via più lievi che ne esaltino l’ascensionalità fino al tono di pura luce del centro, nasce per la prima volta, come noto, con il Correggio a Parma, in San Giovanni Evangelista e nel Duomo; né escluderei che Quagliata ne abbia preso visione: come anche dell’altra cupola correggesca della Camera di San Paolo, divisa in spicchi alla cui base si scorgono delle forme rotonde. La sua ispirazione astratta e la magia dei colori sono però più vicine semmai, allo spirito dell’arte bizantina, non tanto ai motivi e alle forme di una cupola come quella ravennate del Battistero degli Ortodossi, quanto alla visione mistica, che in essa si manifesta, del colore come vibrazione di luce. Nel corso del medioevo, furono proprio le vetrate a reinterpretare questa spiritualità del colore. Gli artisti dell’epoca non hanno però mai costruito con il vetro delle strutture di copertura e del resto non avrebbero potuto, con i loro mezzi tecnici, realizzare quella forma emisferica che della cupola è propria. Potranno, forse, averlo sognato.

Il fascino dell’invenzione di Quagliata è proprio anche nell’audacia tecnica: una tecnologia avanzata e raffinatissima che si unisce alla flagrante chiarezza delle forme e dei colori, di uno splendore come messo a nudo nella sua pura essenza, per fare di quest’opera un’espressione totalmente appartenente al nostro tempo, una conclamata invenzione della modernità: benché non in contraddizione, per la persistenza delle simbologie, le valenze più intime dello schema visivo e la concezione mistica che esprime, con i tramandi della tradizione. Le novità tecniche nascono dalla pluridecennale sperimentazione di Quagliata nel trattamento delle vetrate e del vetro, nonché dalla collaborazione con alcune delle più qualificate fabbriche. Al momento della cottura nei forni, tutti i vetri hanno ricevuto la loro curvatura, che di norma si ottiene invece, ma con un risultato discontinuo, attraverso la sfaccettatura delle superfici.

L’arte della vetrata e quella del vetro rispondono in realtà a procedimenti diversi; Quagliata ha fatto ricorso a tecniche che discendono da entrambe le arti. Alla rilegatura a piombo delle vetrate sono abbinati momenti di fusione del vetro, grazie ai quali l’artista riesce a riportare la fissità della lastra alla fluidità della pittura. Questo secondo procedimento è stato realizzato nel suo studio di Città del Messico, mentre i vetri del corpo principale dell’opera sono stati soffiati nelle fabbrica di Freemont negli Stati Uniti.

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